Salute Sette Lecce 

Bambini strappati alle famiglie, le conseguenze psicologiche

Dopo il caso di Bibbiano, si è acceso un faro sugli affidi in tutta Italia. Abbiamo ascoltato un professore psicologo e psicoterapeuta di lungo corso dell’Asl leccese, che da anni si occu...

Dopo il caso di Bibbiano, si è acceso un faro sugli affidi in tutta Italia. Abbiamo ascoltato un professore psicologo e psicoterapeuta di lungo corso dell’Asl leccese, che da anni si occupa di questa materia, per capire qual è la situazione nel Salento. “Oltre il 92% di casi di abusi si rivelano inventati, opera di vendette genitoriali, ma l’invenzione stessa dell’abuso diventa una violenza sul minore. L’allontanamento dalla famiglia è sempre e solo l’ultima spiaggia, una misura che viene intrapresa soltanto dopo che sono falliti tutti i tentativi precedentemente esperiti” - spiega il professore Nuzzo, che in una lunga e interessante intervista ci racconta come incide l’allontanamento familiare sui bambini e quali danni provocano a questi ultimi i genitori violenti, litigiosi, tossici, malati o disagiati.  “Quando il bambino entra in comunità, il primo sentimento che in genere prova è di essere stato ‘espulso’ dalla sua famiglia, insieme con la perdita di quei punti di riferimento attorno ai quali si è sviluppata finora la sua esistenza. È un trauma che ingenera sensi di colpa”. Per un professionista del settore l’allontanamento del bambino dal proprio nucleo familiare è l’extrema ratio, il triste epilogo di un fallimento della società. Ma, come ci spiega il preparatissimo esperto salentino che abbiamo intervistato oggi, si apre la strada della possibile salvezza, dell’aiuto e del riscatto. È anche vero, però, che le istituzioni potrebbero fare di più. Inoltre, spesso i Comuni pagano in ritardo e male le case famiglia. “Se l’Italia è stata sanzionata almeno 18 volte dalla Corte dei Diritti umani proprio sulle modalità con cui affronta il problema delle fragilità familiari è per l’inefficacia delle proprie sentenze: questo non può che dirci che non sempre viene fatto scrupolosamente l’interesse del minore”, ci spiega il professore Nuzzo nell’intervista, che vi consigliamo di leggere attentamente per capire bene il mondo degli affidi.  In Puglia esiste il Programma P.I.P.P.I: si tratta di un progetto regionale che punta a a creare un raccordo tra istituzioni diverse, “con l’obiettivo di ridurre il numero dei bambini allontanati dalle famiglie attraverso linee d’azione innovative nel campo dell’accompagnamento della genitorialità vulnerabile, nella convinzione che solo un processo di contaminazione fra l’ambito della tutela dei ‘minori’ e quello del sostegno alla genitorialità può dare frutti positivi”.  È un’innovazione nell’intervento di aiuto alle famiglie multiproblematiche”. Esistono delle linee guida regionali in materia di maltrattamenti e violenze su minori, che hanno l’obiettivo di prevenire, monitorare e intervenire con efficacia. Esiste anche la formazione ultra-specialistica (il corso è affidato al Servizio di Psicologia GIADA dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico-Giovanni XXIII di Bari e prevede 7 moduli formativi, replicati in 3 edizioni, realizzati in diversi territori, a Foggia, Bari e Lecce“. Oggi, però, ci concentriamo sul trauma del bambino: sia quello dovuto a un ambiente familiare disagiato che quello dovuto a un inevitabile allontanamento. Chi ci aiuterà a comprendere questo mondo è un super-esperto: Salvatore Nuzzo, Dirigente Psicologo Psicoterapeuta a indirizzo cognitivo comportamentale nel Consultorio Familiare di Poggiardo (ASL Lecce), titolare di incarico di Alta Professionalità Adozioni, Abuso e Maltrattamento minori e coordinatore del Servizio Integrato Affido e Adozione dell’Ambito Territoriale Sociale di Poggiardo. L’esperto intervistato oggi ha ricoperto importanti ruoli nell’Ordine degli Psicologi, è stato professore in Unisalento e insegna anche in una scuola di specializzazione. Il professore Nuzzo ha pubblicato per le Edizioni San Paolo Educare i figli con l’intelligenza emotiva(2018). È in uscita a settembre, con i caratteri di Edizioni La Meridiana, Come nasce un adolescente. Percorso per educatori che aiutano i genitori. INTERVISTA AL PROFESSOR SALVATORE NUZZO, DIRIGENTE PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA DELL’ASL LECCESE  Professore, è stato costretto spesso a consigliare di ‘sradicare’ un bambino dalla sua famiglia di origine? Qual è il principio che bisogna seguire per arrivare a fare una scelta così dolorosa? “Il bisogno primario di ogni bambino è avere la sua famiglia. Questo principio non è ideologico, ma risponde alla necessità vitale ed evolutiva dei bambini. Qualsiasi soluzione alternativa, anche la migliore, è un surrogatoa questa necessità fondamentale di cui il minore sarà privato, con gli inevitabili danni alla sua crescita, e lavora sulla riduzione del danno, sul ‘meno peggio’. Il collocamento fuori famiglia dovrebbe rappresentare perciò una breve parentesi, necessaria ad aiutare i genitori. L’accoglienza di bambini e adolescenti presso una famiglia affidataria o presso una comunità residenziale costituisce uno degli strumenti di aiuto alle situazioni di minori temporaneamente o parzialmente privi di cure parentali adeguate, strumenti che si collocano in un più ampio progetto di protezione dei bambini/ragazzi e, ogni qual volta è possibile, di recupero della loro famiglia.  L’art. 2, comma 1, della Legge 149/2001 recita: «Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo …è affidato ad una famiglia…in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno». Questo enunciato sintetizza efficacemente che esiste un diritto del bambino a ricevere cure adeguate e che è bene che ciò avvenga in una famiglia. Il successivo comma 2 dello stesso articolo stabilisce che «ove non sia possibile l’affidamento…, è consentito l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare caratterizzata da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia». Alla luce di questa cornice normativa voglio chiarire che l’allontanamento è sempre e solo l’ultima spiaggia, una misura che viene intrapresa soltanto dopo che sono falliti tutti i tentativi precedentemente esperiti. Lo scopo di un allontanamento è quello di tutelare i diritti dei minorenni e recuperare, ove possibile, con il sostegno dei servizi sociali e sanitari, la piena responsabilità genitoriale, perché, anche quando il bambino viene ‘allontanato’, si continua a lavorare sul nucleo familiare con l’obiettivo di un suo possibile rientro in famiglia. Gli interventi di protezione sociale e di tutela giurisdizionale, soprattutto quando comportano un allontanamento del minore dalla famiglia, non sono focalizzati esclusivamente sul bambino, ma comprendono il ‘rapporto’ che lo lega alla sua famiglia e al suo ambiente sociale di vita.  È questo il principio che cerchiamo di seguire nell’arrivare a fare una scelta così dolorosa come l’allontanamento di un minore, consapevoli che le criticità all’origine della complessa ed eccezionale decisione da parte dei servizi pubblici e dell’Autorità giudiziaria di allontanare un figlio dai genitori non riguardano solo il bambino, ma afferiscono soprattutto alle relazioni intergenerazionali. Di conseguenza non è mai solo il bambino ad essere momentaneamente ‘accolto’ in un’altra famiglia o in una Casa Famiglia, ma piuttosto la sua storia e l’intreccio delle sue relazioniche assumono nuovi significati attraverso la memoria e le nuove esperienze che il processo di cura promuove. Pertanto il progetto quadro degli interventi previsti per quel minore non ha mai al centro soltanto il bambino o l’adolescente, ma anche la sua famiglia di origine e i soggetti che costituiscono la sua cerchia sociale. Per questo l’allontanamento temporaneo non è un ‘fine’, ma è un ‘mezzo’ attraverso cui mirare alla cura dei legami e delle relazioni familiari e generazionali, nell’obiettivo ultimo del ricongiungimento familiare. È dunque è un intervento finalizzato a garantirgli relazioni sociali significative, personalizzate e continue per il tempo necessario alla valutazione, alla cura e alle eventuali decisioni giudiziarie. In comunità il bambino viene sostenuto nell’elaborazione dell’evento legato alla separazione dal suo ambiente di vita che, anche se inidoneo e all’interno del quale esistono condizioni familiari e relazioni disfunzionali, è comunque una realtà conosciuta. Contemporaneamente è previsto anche un percorso di sostegno per i genitori nell’ottica di recuperare la loro capacità genitoriale e permettere il rientro del minore in famiglia. Sono tre i criteri che ci guidano nella decisione di un allontanamento: 1) che il minore sia il danneggiato; 2) che l’attuale sistemazione del minore non sia modificabile in modo autonomo; 3) che l’allontanamento sia meno dannoso della permanenza in famiglia”.  Quali sono i casi più ricorrenti in cui si tolgono i figli ai genitori? Droga, alcolismo, problemi mentali, violenze, maltrattamenti? È ricorrente anche l’affido nei casi di gravi difficoltà economiche? “Le motivazioni che portano all’affidamento sono, in primo luogo, le cosiddette condotte abbandoniche e/o digrave trascuratezza dei familiari (abusi, violenze, maltrattamenti, incuria, gravi conflitti di coppia…), ossia tutte quelle situazioni nelle quali il genitore non è in grado di rispondere ai bisogni di crescita del figlio, non ne cura la salute, lo sottopone a maltrattamenti fisici che mettono a rischio l’incolumità e la vita del piccolo, lo costringe a vivere esperienze non adatte alla sua età o ad assistere a scene di violenza tra il padre e la madre, non gli assicura una gestione attenta dei rapporti interpersonali o una routine corretta, con orari definiti per mangiare e per dormire. In secondo luogo, vi sono quelle situazioni di elevata conflittualità della coppia, nelle quali entrambi i genitori si sottraggono a una sana relazione e abbandonano emotivamente il figlio, ignorandone le esigenze e i sentimenti, spesso dimenticando che il bambino non è una proprietà di cui disporre a proprio piacimento, tanto meno da usare come arma di ricatto nei confronti dell’ex partner. Ma è questo il ruolo che spesso il figlio assume in un contrasto intrafamiliare. L’interesse primario non è più quello del minore, che fa i conti con le visite negate, con le telefonate sabotate, con le intimidazioni e con i ricatti affettivi, con le squalifiche dell’altro genitore. E il figlio può sentirsi tanto mortificato dalla situazione da non coltivare amicizie e soffrire per la vergogna, il senso di colpa, la solitudine; molti imparano a diventare totalmente autosufficienti e senza bisogni particolari, per evitare che qualcuno abbia di nuovo potere su di loro. In terzo luogo, vi sono i problemi di dipendenza di uno o di entrambi i genitori. Vivere con un familiare tossicodipendente o con una persona che fa pesante abuso di sostanze, compresi gli alcolisti, può far sentire come se si vivesse in una zona di guerra. I cambiamenti di personalità, le variazioni d’umore, l’imprevedibilità e le reazioni irrazionali provocate dalla dipendenza creano il caos. Le dinamiche familiari vengono organizzate attorno al tossicodipendente, che agisce come un piccolo tiranno, il quale nega che il bere o l’uso di sostanze sia un problema, e al contempo agisce dando ordini e accusando tutti gli altri di quello che sta accadendo. I membri della famiglia negano ciò che sanno, percepiscono e vedono. Ma tutto questo comporta un pesante prezzo che viene pagato a livello psicologico, specialmente dai più vulnerabili, i figli. Alle dipendenze tradizionali si aggiungono oggi ulteriori dipendenze: quelle legate alla sempre più diffusa pratica delle scommesse e della dipendenza da internet che disturbano la coppia genitoriale nel suo impegno di cura e di educazione e concentrano altrove le sue energie. Il figlio si trova, così, schiacciato dai problemi degli adulti rispetto ai quali diventa ‘invisibile’, nel senso che le figure genitoriali non possono costituire per lui un riferimento sicuro, in quanto sono psicologicamente assenti o distratte. In quarto luogo, abbiamo a che fare con la presenza di problemi psichiatrici nei genitori che espongono i figli a rischi di varia natura: dallo scarso rendimento scolastico all’abbandono degli studi, dalle disfunzionalità comunicative alle difficoltà di inserimento sociale, dall’aumento delle ripercussioni somatiche dello stress alla possibilità di sviluppare una vera e propria malattia mentale. Nel genitore malato fanno la differenza la tipologia, la gravità e la cronicità della malattia, la presenza di comorbidità (ad esempio l’abuso di sostanze), ma anche la capacità di far fronte alle difficoltà, l’autostima, le competenze genitoriali acquisite e il tipo di relazione che instaura col bambino (su un continuum che comprende l’abuso, la negligenza, l’ostilità e il rifiuto, lo scarso coinvolgimento o la risposta sensibile e attenta).  Altri aspetti discriminanti sono l’assenza o la presenza del secondo genitore, la sua salute mentale, la capacità di cura e le sue competenze genitoriali e, soprattutto, il suo grado di consapevolezza della malattia del partner. Infine, anche il temperamento del bambino fa la differenza, così come le sue competenze cognitive e sociali, la capacità di gestire lo stress, l’autostima e soprattutto la consapevolezza che ha della malattia del genitore. Quest’ultimo è un punto chiave, perché dove la consapevolezza è scarsa o assente resta la percezione confusa di una situazione negativa di cui il bambino è inevitabilmente portato ad auto-incolparsi. Alcuni nuclei familiari presentano, infine, rilevanti problemi economici e abitativi. Ma l’allontanamento non avviene assolutamente mai per motivi economici quanto piuttosto perché la povertà spesso è fonte di tensioni che rendono più difficile la corretta gestione di un bambino. Infatti la condizione di povertà non è solo materiale ma spesso è anche educativa, affettiva e di relazioni, ed è tale da creare esclusione o negare il diritto alla crescita e allo sviluppo relazionale, affettivo, emozionale, culturale, sociale del minore. I bambini poveri sono spesso bambini più soli perché costretti a rinunciare a importanti occasioni di socializzazione e alla vicinanza di reti sociali (parenti, vicini, amici, compagni di scuola) in grado di fornire supporto o, al contrario, di creare una situazione di isolamento e stigma. In tutte queste situazioni è compito dei servizi sociali far capire ai genitori i bisogni del figlio e lavorare insieme a loro per migliorare la situazione, educandoli affinché il bambino possa crescere in un ambiente sano e rispondente alle sue necessità. Si offre, prioritariamente, tutto l’aiuto possibile ai genitori in termini economici, occupazionali, abitativi, terapeutici, ecc., mettendo a disposizione i vari servizi socio-sanitari dell’ASL (Consultorio Familiare, Servizio per le Dipendenze Patologiche, Servizio per la salute mentale, Servizio di Neuropsichiatria infantile, Centro Specialistico per la Cura del Trauma Interpersonale, ecc.), i Servizi Sociali dei Comuni organizzati in Ambito Territoriale Sociale (con l’Educativa Domiciliare, i Centri per le Famiglie, gli Spazi Neutri, la Mediazione Familiare) e le strutture messe a disposizione dal Terzo Settore, come i Centri socio-educativi che ospitano i bambini solo di giorno facendoli rientrare in casa la sera, ecc.  Nelle situazioni di povertà, il Servizio Sociale del Comune/Ambito Sociale provvede ad aiutare economicamente i genitori attraverso le misure previste a sostegno delle famiglie in difficoltà, quali il reperimento di un alloggio idoneo o di un posto di lavoro, il ‘reddito di dignità’, la ‘social card’ e altro”.  Le vicende di Bibbiano hanno acceso un faro sul ‘business degli affidi’. Per chi lavora onestamente può essere una cosa positiva, perché si possono eliminare le mele marce facendo verifiche più scrupolose, vero? “Spetta alla giustizia appurare che cosa è veramente successo in questi ultimi anni nel sistema degli affidi giudiziari a Bibbiano e stabilire le responsabilità penali di questa storia, che offre però l’opportunità agli operatori impegnati nella materia della tutela minorile di operare con sempre maggiore attenzione, competenza e dedizione. Non aiutare un bambino oggi significa sottoporlo al rischio di diventare, con buona probabilità, un deviante domani, con il non trascurabile aggravio, anche in termini economici, dei riflessi negativi per la società (Ospedali, Ser.D, Servizio per la Salute Mentale, carcere, figli a loro volta problematici). E questo non deve accadere. Da operatore, mi preme far notare che l’allontanamento è sempre il risultato di un percorso di valutazione, multidisciplinare e collegiale, sulle condizioni di rischio nelle quali vive il minore: percorso lungo, complesso e delicato al quale partecipano vari Servizi e diversi professionisti con le proprie competenze specifiche, che si conclude con l’adozione di un provvedimento finale da parte del Tribunale per i Minorenni. L’allontanamento viene, quindi, adottato solo ed esclusivamente nell’ottica di garantire il minore e il suo benessere; certamente non viene attuato a cuor leggero, perché rappresenta un evento doloroso per il bambino e per i suoi genitori, ma sempre nella consapevolezza di non aver avuto alternative. L’allontanamento è una decisione dura e difficile che provoca sofferenza anche in noi operatori: ecco perché rappresenta soltanto e sempre l’ultima ratio e avviene solo qualora non vengano più garantiti i diritti fondamentali del minore. Sul nostro territorio i collocamenti nelle strutture riguardano minori con esperienze molto drammatiche alle spalle: essi spesso vi arrivano quando hanno già subito danni significativi. La comunità diventa, per il ragazzo accolto, lo spazio della sua vita attuale, la sua casa, un tempo strutturato, un mondo vivo e vitale, che lo aiuta a rispecchiarsi, a capire e accettare il suo passato e a trarre spunti per la ricostruzione della propria identità personale, rappresentando una base sicura da cui ripartire. Come si evitano le tentazioni di lucro dei privati nel campo degli affidi? I controlli funzionano, la burocrazia è cieca o sa adattarsi al caso concreto? “Non ho mai minimamente pensato che ci si possa arricchire nel campo degli affidi sapendo che, nella nostra provincia, il contributo fisso mensile per ogni nucleo familiare con un minore in affidamento a tempo pieno è di appena 200 euro, che molte Case Famiglia versano da anni in condizioni economiche disastrose perché i Comuni non pagano le rette e che è davvero impagabile la passione e lo zelo con cui tanti operatori continuano a prendersi cura di minori in condizioni così precarie. Ben vengano i controlli stringenti, regolari, assidui; l’impiego delle telecamere nelle strutture di accoglienza; l’obbligo di rendicontazione delle spese; la selezione accurata di operatori validi che non sia solo in un’ottica custodialistica ma di cura e di educazione; la preparazione multidisciplinare per tutti gli addetti ai lavori, compresi i magistrati chiamati a decidere sulle fragilità familiari. Se ci sono strutture che non operano in modo adeguato, si intervenga e si evitino dannose generalizzazioni, ma non si avvii una ‘caccia alle streghe’ di cui non c’è davvero bisogno. Il modo migliore per cambiare quello che non funziona è costituire un sistema permanente di monitoraggio e verifica della qualità. Le tentazioni di lucro dei privati nel campo degli affidi possono essere fermate se si stabilisce il ‘giusto costo’ riferito a standard di qualità garantiti da tutte le strutture, da nord a sud Italia. Ci sono, infatti, comunità virtuose costrette a chiudere – interrompendo percorsi che sono di alta qualità – per i gravissimi ritardi accumulati dai Comuni nel liquidare gli importi necessari alla copertura dei costi vivi. Ribadisco: gli ‘affidamenti di lunga durata’ devono rispondere a specifiche e pensate progettualità che, nel corso del tempo, assumono caratteristiche, contenuti e obiettivi che inducono responsabilmente a continuare il progetto e il percorso in atto, nel superiore interesse del minorenne accolto. La lunga durata incide sulla definizione degli obiettivi, delle modalità di svolgimento dell’affido, dell’articolazione del ruolo dei vari soggetti coinvolti, dei criteri di verifica dell’andamento del progetto. Per questo è assolutamente necessaria, nell’elaborazione del progetto specifico, la definizione di una prevedibile durata dell’affidamento, che presuppone una valutazione tempestiva, approfondita e realistica, da parte delle istituzioni competenti, della situazione personale e familiare del minore, compresa quella delle capacità genitoriali e del loro recupero, anche parziale, in relazione alle esigenze di crescita di quel bambino, tenuto conto degli interventi che realisticamente possono essere attivati dai Servizi competenti e della capacità dei genitori/parenti del minore di poterne fruire in base alle loro condizioni. L’affido di lunga durata dev’essere accompagnato da interventi specifici ed individualizzati e dev’essere sostenuto anche economicamente dall’ente affidatario, prevedendo una periodica revisione dell’andamento dell’affidamento da parte del Tribunale per i minorenni, sulla base della relazione semestrale del servizio sociale referente e dell’audizione-ascolto degli stessi servizi sociali e sanitari, degli affidatari, della famiglia di origine e, quando nel suo interesse, del minore stesso. L’allontanamento può assumere un valore costruttivo solo se pensato come una tappa di un più ampio disegno progettuale, volto alla ricostruzione del nucleo familiare d’appartenenza, se in grado di ridefinire le disfunzionali dinamiche familiari del passato. Occorre evitare il più possibile di dare corso ad un allontanamento del minore senza parallelamente definire il “progetto” più ampio a sua tutela, ove siano previste azioni, tempi e modalità operative, finalizzate al rientro del minore nella sua famiglia d’origine e/o al mantenimento del legame. Il mandato del Tribunale al Servizio è di solito esplicito in tal senso, poiché, nella maggior parte dei casi, non solo prescrive in modo chiaro le misure di valutazione e sostegno sul minore e sui genitori, ma chiede ai Servizi sociali di riferire sull’esito degli interventi attuati, indicando ‘proposte progettuali’.  Ove non ci si orientasse da subito ad operare in un’ottica progettuale, il rischio è quello di attuare interventi dispersivi, scollegati, parcellizzati e inefficaci per la reale tutela del minore. Tale rischio non può e non deve essere sostenuto né dal minore, né dalla sua famiglia d’origine, a fronte della loro condizione di vulnerabilità e dipendenza dall’operato delle Istituzioni. Tanto meno tale rischio può essere sostenuto dagli operatori che devono rispondere del loro operato tecnico-professionale sia nei confronti del Tribunale, sia nei confronti degli amministratori comunali, ai quali, per altro, devono motivare le ragioni degli interventi in essere (in particolare quelli che prevedono il collocamento in comunità di minori, a fronte della pesante incidenza economica che questi generano sui bilanci comunali)”.  Perché le violenze e le molestie sessuali sui minori, proprio da parte dei padri o dei parenti, sono così ricorrenti? Scopriamo spesso diversi casi anche nel Salento. “Il fenomeno della violenza, specialmente quella intrafamiliare, è oggi diventato più visibile, per vari ordini di motivi. Non più improntata su un modello patriarcale, e non più allargata ma mononucleare o ricomposta, la famiglia non riesce più a nascondere ‘i panni sporchi’ e a ‘lavarli in casa’, perché sono venute meno le figure cuscinetto (ad esempio, nonni, zii, cugini) che potevano agire per porre rimedio ai conflitti interni alla famiglia. Anche l’organizzazione dell’apparato amministrativo, finalizzata a garantire l’assistenza alla famiglia e ai suoi singoli componenti nelle diverse situazioni di un percorso di vita difficile (ragazze madri, conflitti di coppia, giovani con problemi di disintossicazione da alcool o da droga, con disagi psicologici, con disturbi del comportamento, ecc.), mette in campo servizi socio-assistenziali e sanitari che entrano nella famiglia, attivano le proprie capacità di ascolto e riescono a captare i problemi dove prima sarebbe stato impossibile. Anche la nascita di una nuova cultura giuridica, sempre più sensibile ai problemi della famiglia e dei minori, ha modificato alcuni assunti normativi introducendo la legge contro la violenza sessuale (n. 66 del 1996), la legge contro la pedofilia (n. 259 del 3 agosto 1998) e le due leggi in tema, rispettivamente, di allontanamento dalla casa familiare (n. 149 del 2001) e di ordini di protezione (n. 154 del 2001), ed altre ancora, dando una qualche ‘certezza’ della giustizia e dell’applicazione delle sanzioni nel momento in cui la violenza emerge come denuncia. Faccio notare che la relazione adulto-bambino è inevitabilmente segnata dalla asimmetria. Del resto, se l’adulto non fosse superiore al bambino in quanto a competenze, possibilità, gestione pratica e mentale delle cose, il piccolo non potrebbe sopravvivere, perché non è autosufficiente e perché i suoi apprendimenti verso l’autosufficienza gli vengono dall’adulto che lo accompagna, lo guida e lo aiuta a crescere. Ma la relazione asimmetrica è sempre a rischio, perché prevede che alcuni sappiano e comandino e decidano per altri che non sanno e possono solo ubbidire ed eseguire: l’asimmetria dà, infatti, potere e il potere può essere usato male. Proprio a causa di questa indispensabile, innegabile, insuperabile ed ovvia posizione asimmetrica che caratterizza la relazione adulto-bambino, questo ultimi nel mondo degli adulti sono in situazione di protezione e di vantaggio, ma talvolta anche di rischio quando gli adulti che si prendono cura di loro non sono consapevoli che la parte forte, competente, adulta può prevaricare sulla parte debole, sprovveduta e affidata. Ne consegue che un’area da tenere sotto osservazione, perché particolarmente esposta al rischio della non consapevolezza degli adulti e al conseguente rischio di disagio per i bambini, è l’area sempre più vasta di quelle coppie che diventano genitori in situazione di fragilità coniugale,come: a) le coppie cosiddette ‘premature’, nate da unioni decise con troppa leggerezza o urgenza, oppure motivate da interessi estranei alla libera scelta della coppia stessa, come l’attesa imprevista di un figlio, lapressione al matrimonio da parte della famiglia allargata, motivi economici,ecc.; b) le coppie che non sono ancora riuscite a creare tra loro una base di alleanza sull’essenziale e sul quotidianoe che, quindi, improvvisano, vivono alla giornata, mancano di un progetto di coppia e di famiglia; c) le coppie in cui ogni contrattempo o litigio o differenza insinua l’ipotesi della divisione, della separazione e rappresenta ogni volta l’inizio della fine; d) le coppie dipendenti dall’uso di sostanze psicotropeo in cui la dipendenza severa da esse da parte di uno o di entrambi i partner pone il bambino in situazione di grave fragilità; e) le coppie in cui entrambi o uno dei due partner è ancora troppo dipendente dai genitori, non avendo saputo sdoganarsi dalla propria condizione di figlio, per cui non riesce ad elaborare autonomi sistemi di significato e stili di comportamentoin grado di diventare per il bambino sicuri punti di riferimento; f) le coppie caratterizzate dalla presenza di giochi familiari nei quali gli adulti sono invischiatie in cui il bambino si trova,suo malgrado, coinvolto con ruoli sostitutivi di affetti mancati o con ruoli riparativi di ferite subite o con ruoli pacificatori di conflitti antichi e insanabili. In tutti questi casi il rischio consiste nell’impossibilità che gli adulti hanno di pensare a lui, di vederlo come veramente è: un bambino bisognoso di attenzioni particolari, adeguate e modificate a ogni passaggio di età e a ogni conseguente compito evolutivo; g) le coppie che non hanno ancora risolto la loro relazione, non riuscendo ad orientarla né nella direzione della stabilità né nella direzione della separazione. L’insicurezza del nucleo familiare si ripercuote negativamente sul benessere del figlio, principalmente perché i genitori sono distratti rispetto alle esigenze evolutive del piccolo, sono ancora troppo concentrati su di sé per potersi rendere conto della fatica che il figlio sta facendo per crescere e apprendere, perché sopraffatti dalla fatica di restare coppia. In queste situazioni il rischio per il bambino consiste nella possibilità che egli non veda valorizzato e premiato, perché non osservato e riconosciuto, dai genitori distratti, il percorso di crescita che sta compiendo; h) le coppie in cui la violenza tra gli adulti espone i bambini a gravi forme di trascuratezza, di maltrattamento fisico e psicologico in quanto assistere alla violenza in famiglia rappresenta un’evenienza fortemente distruttiva.  Con questo lungo elenco voglio sostenere che le situazioni di minori a rischio (e quindi anche le violenze e le molestie sessuali sui minori ad opera dei genitori o dei parenti), oggi provengono non solo da contesti caratterizzati da disagio materiale o svantaggio sociale, ma sempre più frequentemente dacontesti relazionali incapaci di soddisfarne i bisogni, caratterizzati immaturità psicoaffettiva degli adulti e da anomale relazioni tra genitori e figli. Se nelle società meno sviluppate appare ovvio che il bambino a rischio sia quello che appartiene a gruppi sociali svantaggiati (povertà, analfabetismo, assistenza scadente, basse opportunità di vita), nelle società sviluppate il bambino a rischio è quello che vive in un contesto sociale e relazionale che non è in grado di produrre risorse capaci di soddisfare i suoi bisogni evolutivi                                 sul piano mentale. Ciò significa che la trasformazione del disagio sociale in attacco alla prole necessita di anelli intermedi, tra cui il più significativo è il modello di funzionamento psicologico dei genitori, che a sua volta deriva dalle loro precedenti esperienze infantili. E come rileviamo anche nel nostro Salento, la disfunzione relazionale che danneggia i figli affonda le sue radici non in contingenze esterne, che pure possono porsi come fattori aggravanti e/o scatenanti, ma in modelli psichici che rendono le condotte negative forzatamente perduranti. È vero che molte accuse di violenza si rivelano false e sono pure vendette di uno dei coniugi? “La separazione coniugale estingue la coppia coniugale ma non la coppia genitoriale, che deve continuare ad esistere per il superiore interesse del minore. Ma proprio nel contesto delle separazioni conflittuali accade che uno dei due genitori sporga denuncia ai danni dell’ex-coniuge al fine di ottenerne celermente l’estromissione dalla vita dei figli. Chi viene accusato di molestie sui propri figli ha scarse possibilità di conservare normali rapporti con loro, anche quando le accuse si rivelano false. Infatti, qualunque comportamento si ritorce contro il soggetto accusato, fino ad apparire validante per le accuse che gli vengono mosse. Sembra, però, che nel 92,4% dei casi le accuse di violenza si rivelino false. Si tratta di un dato allarmante, in quanto non solo tali accuse sgretolano il rapporto tra il bambino e il suo genitore falsamente accusato, ma ancor di più perché queste false accuse vengono vissute nella mente del piccolo come abusi sessuali veri e propri. Ciò significa che il 92,4% dei minori considerati vittime di abusi sessuali sulla base delle accuse di uno dei genitori, in realtà sta effettivamente subendo un abuso, ma per colpa dell’accusatore e non certo dell’accusato! Inoltre, il genitore che sta accusando di tali comportamenti l’altro, sta facendo entrare di forza il proprio figlio nel mondo degli abusi sessuali incestuosi: sarebbe buona cosa che per un bambino questo concetto non esistesse. La letteratura scientifica di riferimento (psicologia dell’età evolutiva, neuropsichiatria infantile, pedagogia) concorda sul fatto che, quando l’abuso di un minore è inventato, l’indagine - condotta secondo modalità inadeguate - diviene essa stessa un abuso. Questo significa che se non c’è un vero e proprio abuso sessuale, l’abuso diventa la violenza alla quale il minore viene sottoposto. Non si può trascurare, pertanto, che i procedimenti per falsi abusi e false violenze generano nelle presunte vittime disturbi sul loro funzionamento psicologico, sociale e adattivo sovrapponibili a quelli riscontrati nelle vittime accertate”.  Che tipo di problemi può generare in un bambino molto piccolo il distacco dalla propria casa e dal proprio ambiente familiare? “Il bambino che vive un’esperienza di allontanamento attraversa una situazione emotiva e relazionali che richiede, contemporaneamente, il distaccofisico dai legami conosciuti e la costruzione di nuove interazioni. La sua convivenza tra i segmenti di storia passata e presente è spesso confusa ed ambivalente e implica dei delicati equilibri interni per riuscire a comprendere quanto è successo e adattarsi progressivamente a tutte le novità. Qualsiasi provvedimento che dispone l’allontanamento di un bambino dalla sua famiglia (dai suoi genitori o, comunque, dagli adulti che si prendono abitualmente cura di lui) causa sofferenza, anche se è disposto a fin di bene, e costituisce sempre in una certa misura un trauma. Quando il bambino entra in comunità, il primo sentimento che in genere prova è di essere stato ‘espulso’ dalla sua famiglia, insieme con la perdita di quei punti di riferimento attorno ai quali si è sviluppata finora la sua esistenza. Egli si trova a vivere improvvisamente in un ambiente estraneo, nel quale è escluso dai ricordi e dalle esperienze comuni. Ha paura di essere stato abbandonato e spesso pensa che tutto ciò è avvenuto perché lui non è stato buono. Può sentirsi, quindi,colpevole del distacco che ha subito. Tutto è complicato se i distacchi sono stati diversi e vicini nel tempo o se la relazione che ha instaurato con i suoi genitori è fragile. L’esperienza dell’allontanamento impone al bambino la capacità di governare una scissione: la spaccatura fra passato e presente. Molte emozioni si agitano dentro il bambino e molte domande rimangono senza risposta. Le emozioni e le domande riguardano l’area dell’identità, della colpa, dell’appartenenza affettiva, dell’abbandono, del conflitto di lealtà. Queste emozioni si trasformano facilmente in agiti oppositivi, accusatori, talvolta violenti, con rapidi viraggi dell’umore, dalla rabbia delusiva alla colpa, alla vergogna, al bisogno di riparare, alla paura di essere ritenuto indegno dell’amore e della stima. Non raramente si assiste alla idealizzazione della famiglia d’origine, che impone, in qualche caso, vere e proprie rimozioni riguardo ad eventi del passato”. Ci sono casi in cui i piccoli vengono riportati nella famiglia di origine? Chi valuta il possibile rientro? “Il processo di riunificazione del bambino allontanato con la sua famiglia d’origine richiede, per realizzarsi efficacemente, che durante il periodo di affidamento del figlio, la famiglia sia coinvolta in un progetto di acquisizione e di maturazione delle sue competenze educative. L’obiettivo della riunificazione familiare non può compiersi se coloro che progettano e che gestiscono l’affidamento del bambino non lavorano sul rafforzamento delle risorse, delle competenze e delle abilità dei suoi genitori affinché possano riappropriarsi del loro ruolo educativo. L’articolo 1 della legge 149/2001 sottolinea il “diritto del minore alla propria famiglia”, diritto che deve essere assicurato predisponendo interventi di sostegno e di aiuto a favore della famiglia in difficoltà. La tutela del bambino, infatti, è strettamente connessa al suo diritto a poter vivere e crescere nell’ambito della propria famiglia originaria e a vedere i propri genitori supportati nell’affrontare le loro difficoltà e, se possibile, aiutati a superarle.  Rispettare il legame genitori-figli durante il periodo di affidamento è fondamentale, in quanto non si può pensare di favorire il processo di sviluppo del bambino operando una frattura tra il prima e il dopo. Come ha solennemente ribadito la Legge n. 173/2015 – modifica alla legge 4 maggio 1983, n. 1984 sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine, ogni persona esiste solo nelle sue relazioni, e negare le relazioni originarie al bambino è un errore che comporta conseguenze gravissime nel suo processo di crescita. Pertanto la durata dell’accoglienza dev’essere limitata al tempo necessario per avviare un percorso riparativo dei traumi e delle carenze subite e per costruire le possibilità della riunificazione familiare, oppure le condizioni per l’autonomia personale, o per altre soluzioni, sempre costruite in base al superiore interesse del minore. La “durata appropriata” dell’accoglienza residenziale va definita a partire dall’analisi dei bisogni e dalla individuazione degli obiettivi nel Progetto Quadro e da verifiche periodiche, che non possono prescindere dalla continua valutazione di quale sia il superiore interesse del bambino, mantenendo, per quanto possibile, l’obiettivo primario della riunificazione familiare. L’accoglienza in un servizio residenziale è, perciò, sempre temporanea e orientata verso il progetto futuro del bambino: l’unicità della sua storia personale e familiare richiede continuità e non fratture tra le diverse fasi progettuali. La conclusione del percorso di accoglienza residenziale rappresenta una specifica fase della storia di vita del bambino e richiede consapevolezza e preparazione anche in relazione al tipo di conclusione individuata, che può essere la riunificazione familiare, l’affidamento familiare, l’adozione, l’avvio all’autonomia o inserimento in altro Servizio residenziale. Durante l’accoglienza residenziale il bambino ha costruito legami affettivi con gli operatori e i volontari e la sua conclusione non può rappresentare un momento di rottura di questi legami, ma una fase di transizione preparata per tempo. Pertanto, in vista del rientro in famiglia occorre valorizzare l’esperienza dell’accoglienza residenziale nel vissuto del bambino. Ciò per due ragioni: in primo luogo, per accompagnare la fase di conclusione dell’accoglienza (per esempio, con informazioni circa la quotidianità del bambino e le persone significative del suo percorso...) al fine di facilitare e strutturare le relazioni e le collaborazioni con gli adulti di riferimento (operatori, famiglia d’origine...); in secondo luogo, per sostenere il benessere del bambino garantendo la continuità degli affetti e delle relazioni, laddove possibile, con gli operatori e con gli adulti che lo hanno seguito nell’esperienza di accoglienza residenziale. Pertanto il percorso di rientro in famiglia va preparato con gradualità e monitorato nel tempo, anche dopo il ritorno del bambino nella famiglia, perché, anche se si sono mantenuti i rapporti con i suoi familiari, il bambino che ritorna nella propria casa è una persona ‘diversa’ da quella che era stata allontanata, come probabilmente ‘diversi’ sono anche i suoi genitori e parenti. Ecco, dunque, la necessità di preparare con cura i passaggi della riunificazione prevedendo una fase di continuità tra il Servizio residenziale e la famiglia. Ma sono tutti i servizi che si occupano del caso a dover valutare gli effetti che il progetto di riunificazione ha prodotto sulle condizioni del sistema familiare e del bambino, e in particolare gli effetti degli interventi sul minore e sulla famiglia in ogni fase del programma di graduale riavvicinamento fra genitori e figlio. Si tratta di un impegnativo lavoro di squadra che vede all’opera varia professionisti: tutti coloro che hanno progettato l’allontanamento, che hanno monitorato il suo percorso di crescita e che ora accompagnano il suo rientro nella famiglia d’origine, seguendo l’irrinunciabile principio della miglior tutela del minore, disponendo tutti della capacità di interagire dentro ‘quel’ progetto, d’intesa con il Tribunale per i Minorenni. Il figlio di un alcolizzato o di un tossico, oppure di una persona violenta, quante possibilità ha di diventare come il genitore malato se continua a viverci insieme? “Molti studi hanno riscontrato una correlazione diretta tra sintomi adulti di salute negativa e i traumi subiti nell’infanzia. Gli eventi negativi che sono stati presi in considerazione includono il divorzio, varie forme di abuso, la trascuratezza, e anche l’aver vissuto con un tossicodipendente o con una persona che faceva abuso di sostanze in famiglia. I ragazzi con genitori tossicodipendenti e alcolisti di solito sperimentano più forme di ‘esperienze infantili avverse’, dovute all’impatto negativo che un alcolista ha sulle altre persone sotto forma di ‘stress tossico’. È tossico perché è inesorabile: i ragazzi non possono sfuggirvi e, in tal modo, rischiano di sviluppare dipendenza da sostanze. Il figlio di un tossicodipendente, oltre a una possibilità maggiore di sviluppare alcolismo o disordine nell’uso di alcol, rischia di trasmettere ai suoi stessi figli quello che ha ricevuto dai genitori, cioè tutto quello che può conseguire dall’insicurezza, dall’ansia, dalla paura, dalla rabbia, dall’ipercriticismo verso di sé, dalla mancanza di confini chiari, dall’accettare un’inaccettabile, costante paura, e da tutte le altre conseguenze fisiche ed emotive dello stress tossico. È risaputo che la violenza assistita(Legge 4 aprile 2001, n. 154) costituisce uno dei fenomeni più gravi di distorsione del percorso di crescita dei minori, sia quando essi siano vittime dirette della violenza, sia quando assistano ad atti di violenza su altri membri della famiglia o su persone che rappresentano un importante punto di riferimento affettivo. La violenza assistita produce, inoltre, effetti negativi sullo sviluppo delle capacità di protezione e di autoprotezione in età adulta; è un fattore di rischio per maltrattamenti d’altro tipo quali trascuratezza, maltrattamento fisico e abuso sessuale; infine è il principale fattore della trasmissione intergenerazionale della violenza. Per un adulto che abbia vissuto tutto ciò nella sua infanzia è fondamentale affrontare questo trauma, per non ricreare quello che ha subito all’interno del suo nuovo nucleo familiare. Poiché i figli tendono a identificarsi inconsapevolmente con i genitori sotto vari aspetti e tendono ad adottare, quando siano diventati a loro volta genitori, verso i propri figli, gli stessi modelli comportamentali che hanno essi stessi sperimentato durante la propria infanzia, modelli di interazione, sia adattivi che disadattivi, si trasmettono più o meno fedelmente da una generazione all’altra”.  I pedofili sono sempre a loro volta bambini abusati? “Un largo numero di pedofili dichiara di essere stato sessualmente abusato nell’infanzia. Si parla, perciò, di ‘ciclo ripetitivo dell’abuso’, per il quale essere stati esposti da bambini a maltrattamenti rende più probabile il ricorso da adulti a comportamenti violenti verso i propri figli. Il bambino abusato cresce con il suo inferno interiore incapsulato dentro di sé e a poco a poco diventa un adulto con la necessità di mettere a tacere la sua sofferenza interiore, cioè i vecchi sentimenti di impotente umiliazione e il suo desolato vuoto affettivo. Se, infatti, nel frattempo non sono intervenuti eventi in qualche misura riparatori, ovvero se le circostanze non gli hanno permesso di sperimentare nuove figure di attaccamento capaci di correggere almeno in parte i tratti di personalità danneggiati dall’abuso, l’abusato divenuto adulto non sarà – come ha dimostrato la De Zulueta – ‘in grado di avere relazioni sessuali soddisfacenti’.  Perciò i sentimenti di indegnità e di autosqualifica, introiettati molto tempo prima, unitamente al peso della sua perenne deprivazione affettiva, prima o poi lo spingeranno ad agire in modo da sentirne meno il peso e proverà l’eccitante impulso di insinuarsi nella vita di qualche bambino solo e isolato. L’abuso che potrà compiere avrà, incredibilmente, la funzione di difenderlo dalla consapevolezza di essere stato abusato, seguendo un ragionamento inconscio del seguente tenore: ‘Finalmente non sono più io che subisco questo maltrattamento, questa minaccia per me immensa e intollerabile; finalmente non devo più sopportare questa situazione.  Gaetano Gorgoni

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