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L’inquinamento che scatena il Covid: l’ipotesi che dà ragione a Greta

Il professor Mauro Minelli ci spiega che non è colpa del SARS-CoV-2 che circola con le particelle inquinanti, ma potrebbe essere una reazione del nostro sistema immunitario al PM2.5, inquinante più presente al nord, a permettere alla malattia covid di proliferare nel nostro organismo.

Greta Thunberg ci aveva avvisati, potremmo dire, se l’ipotesi sostenuta da alcuni studi sull’inquinamento fosse confermata. Il professor Mauro Minelli ci spiega che non è colpa del SARS-CoV-2 che circola con le particelle inquinanti, ma potrebbe essere una reazione del nostro sistema immunitario al PM2.5, inquinante più presente al nord, a permettere alla malattia covid di proliferare nel nostro organismo. “Nelle persone residenti in aree territoriali più massivamente e cronicamente esposte ad alti livelli di PM2.5 si verrebbe a determinare, soprattutto a livello polmonare, un’aumentata espressione di ACE-2, da intendersi come dispositivo di difesa attivato dall’organismo per salvaguardarsi dall’azione continuativamente aggressiva del particolato sottile - spiega il professor Minelli - E sarebbe proprio questa organizzazione recettoriale, nata con intenti protettivi ma poi rivelatasi trappola paradossale, a giustificare l’elevato tasso di incidenza e poi anche di mortalità  della CoViD-19 nelle regioni del nord”. 

INTERVISTA AL PROFESSOR MAURO MINELLI 

Professore, considerando l’evidente differenza fra macroaree del paese relativamente all’incidenza e alla mortalità da CoViD-19, è lecito ipotizzare una qualche interferenza sostenuta da fattori esterni al virus capaci di  aumentarne l’aggressività?  

“La potenziale correlazione tra inquinamento ambientale ed epidemia di CoViD-19 è oramai ampiamente descritta nella letteratura scientifica più recente ed accreditata e in diversi Paesi, tra i quali l’Italia, il dibattito sul tasso di mortalità da 2019-nCov correlato all’intervento di specifici inquinanti va sempre più aprendosi, dopo essere rimasto quasi misconosciuto nei mesi iniziali della pandemia.

In realtà, il rapporto fra esposizione storica, dunque non esclusivamente limitata ai mesi del contagio, e indice di mortalità per CoViD-19, risulta essere molto ben documentato nel momento in cui si è ufficialmente scoperto e autorevolmente pubblicato che, prendendo in considerazione due aree geografiche molto simili fra loro per densità di popolazione, comorbilità e condizione socio-economica, con la sola differenza che una delle due è appena meno inquinata dell’altra, quest’ultima - cioè la più inquinata - fa registrare un tasso di mortalità per COVID più alto dell’8% rispetto alla prima.  

Dunque, secondo quanto ipotizzato in questo studio condotto da ricercatori dell’Università di Harvard, una persona che vive per decenni in un’area geografica significativamente esposta soprattutto al particolato fine, ha circa il 10% di probabilità in più di ammalarsi e di morire di coronavirus rispetto a qualcun altro residente in una regione con appena 1 microgrammo in meno del medesimo agente nocivo in un metro cubo d’aria”.

Questo è ciò che è stato dimostrato negli Stati Uniti. E in Italia?  

“Per quanto piccolo, l’Italia è Paese densamente popolato e fortemente interconnesso. Dati ISTAT recentissimi ci confermano che la distribuzione della produttività industriale e la ricchezza pro-capite procedono da nord verso sud seguendo un gradiente discendente. Analogo gradiente sembra essere seguito dalla distribuzione dell’inquinamento da particolato sottile, soprattutto rappresentato dal PM2.5, un particolare miscuglio di sostanze molto piccole, delle dimensioni più o meno pari ad un centesimo del diametro di un capello umano, così sottili da penetrare a fondo nei polmoni. Provengono dalla combustione di qualunque tipo di carburante fossile, per quanto le fonti principali siano rappresentate dalle centrali elettriche a carbone e dal traffico.

Restano ignoti, al momento, i livelli minimi di espressione a partire dai quali l’inquinamento da PM2.5 potrebbe coincidere con una maggiore aggressività del coronavirus. D’altro canto, tante e assai qualificate sono le evidenze scientifiche che correlano livelli storici di inquinamento da polveri sottili e mortalità non necessariamente per CoViD-19, ma in nessun caso si è mai riusciti ad individuare un preciso limite-soglia. In Italia picchi di aumento della mortalità per infezioni virali da influenza stagionale (no CoViD) nell’area urbana di Milano sono stati associati, in studi pubblicati nel 2019, all’inquinamento atmosferico. E analoghe considerazioni sono state fatte per i picchi di mortalità da infezioni respiratorie virali rilevate nella regione cinese di Wuhan nel 2010”.

Dunque, è corretto associare linearmente la diffusione della CoViD-19 all’inquinamento atmosferico?  

“Ciò che non è corretto è semplificare e banalizzare le dinamiche patogenetiche della CoViD riferendosi genericamente ed indifferentemente agli inquinanti, quasi fossero tutti indistintamente veicoli a bordo dei quali il coronavirus raggiunge e colpisce più facilmente i polmoni delle vittime. In realtà, le procedure non sono affatto così semplici. Ciò che non senza difficoltà, fin dall’inizio di questa storia, abbiamo cercato di evidenziare e di sottoporre all’attenzione generale è una complessa dinamica ‘ecologica’ che si sviluppa attraverso una combinazione di meccanismi biologici in grado di permettere al SARS CoV-2, un virus che utilizza il recettore ACE-2 per entrare nelle cellule dell’ospite, di essere particolarmente nocivo per una popolazione cronicamente esposta al particolato sottile PM2.5. Le evidenze a supporto di questa interessante ipotesi partono dal 2018, anno nel quale alcuni ricercatori cinesi pubblicano un primo importante lavoro nel quale evidenziano un preciso nesso di causalità tra esposizione prolungata al PM2.5 e gravi lesioni infiammatorie a carico dei polmoni. Al centro di questo rapporto il coinvolgimento dell’ACE2 (Enzima di Conversione dell’Angiotensina 2), lo stesso che poi si è rivelato essere il recettore-chiave grazie al quale il nuovo coronavirus riesce ad insinuarsi nelle cellule dell’ospite innescando il processo patologico del quale è capace.  Dunque, nelle persone residenti in aree territoriali più massivamente e cronicamente esposte ad alti livelli di PM2.5, come da anni accade in alcune zone del nord-Italia, si verrebbe a determinare soprattutto a livello polmonare un’aumentata espressione di ACE-2, da intendersi come dispositivo di difesa attivato dall’organismo per salvaguardarsi dall’azione continuativamente aggressiva del particolato sottile. E sarebbe proprio questa organizzazione recettoriale, nata con intenti protettivi ma poi rivelatasi trappola paradossale, a giustificare l’elevato tasso di incidenza e poi anche di mortalità  della CoViD-19 nelle regioni del nord rispetto a quelle del centro-sud, in tal modo correlando all’ambiente la differente distribuzione e severità della malattia virale nelle diverse macroaree del paese”.

Quindi non sarebbe nè sufficiente né corretto parlare di inquinamento per giustificare le differenti entità del contagio tra il nord e il sud dell’Italia...

“Come già detto, io credo si possa del tutto escludere l’opzione secondo cui l’azione nociva dei fattori inquinanti si sia giocata sulla generica capacità di questi ultimi di favorire la diffusione del coronavirus. Sarebbe lettura naif di un problema, invece, piuttosto complesso. Molto più plausibile e fondata risulta, invece, l’ipotesi per la quale il particolato sottile predisponga le persone più intensamente esposte ad un maggiore rischio di malattia. E, d’altro canto, a confermare questa premessa intervengono i dati di Taranto e della sua provincia, risaputamente una delle più inquinate d’Italia che, a fronte di meno di 300 casi positivi complessivamente registrati dall’inizio dell’epidemia (il minor numero di casi in Puglia e tra i più bassi d’Italia), da anni non registra più livelli significativi proprio di PM2.5, come rilevato dalle centraline ARPA distribuite nel territorio della provincia jonica.

Anche la ridotta aggressività del nuovo coronavirus nell’infanzia potrebbe essere letta in quest’ottica se consideriamo che, in ragione di una esposizione temporale all’inquinamento necessariamente limitata dall’età, i bambini possono non aver maturato condizioni recettoriali critiche sostenute dall’enzima ACE-2, evidentemente prodottosi in quantità ancora insufficienti a favorire il malefico ancoraggio del virus alle superficie respiratorie dei potenziali ospiti”.

 Quali sono, a suo avviso, le ricadute operative di questa lettura “ecologica” del fenomeno CoViD? E quali suggerimenti si sarebbero potuti trarre credibilmente nella gestione sociale e sanitaria dell’epidemia?  

“Per quanto il ‘senno di poi’ serva risaputamente a molto poco, mi verrebbe subito da dire che, se solo ci si fosse stata una serena disponibilità a prestare un minimo di attenzione verso analisi scientifiche serie e referenziate a disposizione di tutti, le misure di contenimento si sarebbero potute differenziare in forma più logicamente discriminata e non indistintamente “ricopiata” su tutto il territorio nazionale, senza alcun discernimento che non fosse il pedissequo richiamo al salvifico ‘lockdown’. L'analisi logica dei dati, infatti, avrebbe potuto far prevedere che alcune macroaree, rispetto ad altre,  sarebbero state meno colpite in quanto mancanti di quelle situazioni ambientali scatenanti rivelatesi predisponenti, e non sarebbe stato necessario prolungare, in quelle aree, il periodo di chiusura e i pesanti disagi conseguiti.

Certo il PM2.5 è agente ambientale capace di realizzare un’aggressione subdola rispetto alla quale molto poco può fare il singolo cittadino impossibilitato a difendersi da un particolato assai minuto, che non può decidere di smettere di respirare, inodore e capace di penetrare anche negli ambienti chiusi. E’ sui governi e sulle amministrazioni che ricade, dunque, la responsabilità di normare i flussi di inquinanti regolamentando, attraverso l’adozione di norme precise, l’entità delle emissioni autoveicolari e derivanti dalla combustione industriale di carburanti fossili.

E’ su quest’ambito, molto più che sui guanti e sulle mascherine, che avremmo voluto e vorremmo vedere convintamente e seriamente impegnati i nostri decisori e i loro consulenti, senza alcuna pretesa che non sia quella di sostituire, agli azzardi previsionali e alla scelta emozionale e tutto sommato facile della paura (e del catastrofismo), la lucidità e la conoscenza, uniche formule capaci, contro ogni quarantena fisica e mentale, di ripristinare la tranquilla fiducia nell’oggi e, soprattutto, nel domani”.


Gaetano Gorgoni

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